In tutta sincerità ho sempre fatto fatica a buttar via qualcosa, è come separarmi da un pezzo di me che non ritroverò mai più. Freud sarebbe andato in brodo di giuggiole!
Il mio errore è pensare di resistere alle lamentele degli armadi (ne ho due, quello in legno e quello dell’anima) e quindi mi son decisa a svuotare le lande dell’abbondanza.
Che poi non è che io abbia tanto spazio a disposizione, vivendo nell’appartamento di un condominio. Quindi mi sono posta con fare arrogante davanti agli armadi e mi son detta che, se finora avevo rimandato, adesso era il momento di fare sul serio.
Pertanto, basandomi sulla progressione geometrica degli anni, ho incominciato a scartare. “E il naufragar m’è dolce in questo mare…” di abiti! Perdonate la dotta citazione.
Mi son balzate agli occhi tutte le correlazioni tra i capi di vestiario e il motivo dell’acquisto: appuntamenti di dovere, cerimonie, occasioni di cuore e tanto altro, oltre alle ovvie e comode esigenze quotidiane. Va da sé che alla velocità tecnologica alla quale siamo abituati non corrisponde la mia nell’eliminare il superfluo.
Ho sempre avuto simpatia per chi se la passa male come quei jeans sdruciti di gioventù o quei maglioncini improponibili di diversi anni fa quando la lana era davvero lana e la pecora Dolly era di là da venire.
E quando ho accettato qualche consiglio pubblicitario? Si dovrebbe indossare solo ciò che ci fa stare bene perché, già all’acquisto, sentivo che sarebbero stati pesi che non avrei mandato giù.
Che poi le linee primavera-estate-autunno-inverno (ma, come sapete, non ci sono più le mezze stagioni di una volta) sono unite da un legame di delinquenza e affetto perché si aiutano tra di loro a nascondersi. Mi sa che hanno visto che metto gli occhiali per leggere da vicino.
Alla fine di tutto questo lavoro si son vendicate facendomi sbattere il mignolo contro lo spigolo del comò!

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